Antropologia della decadenza le prime radici e l’ultimo impero/12

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NATURA E CULTURE DEL BENE

“Natura di cose altro non è che il nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascono le cose.”
Giambattista Vico

“Noi abbiamo sempre qualche cosa da fare con noi stessi, ma senza perdere in nessun momento la misura generale delle cose che sono a mio avviso: l’utilità della vita esterna, l’atto positivo, l’attività creatrice, il tutto per non sprofondare nel consumo spirituale e nella digestione”.
Rosa Luxemburg

Il necessario realismo

Il mondo in cui viviamo spaventa. Siamo una specie strana e spesso estranea a se stessa. I potenti nella loro marcia oppressiva asservono e distruggono ogni forma di vita. Spesso ci sentiamo impotenti e ci rifugiamo nel privato: inutilmente, perché la realtà ci coinvolge comunque e rischia di sconvolgerci. Possiamo rassegnarci ed accettarla passivamente finendo per diventarne tristemente parte. Possiamo invece cercare una delle strade che ci vengono offerte dai rimasugli della politica rimanendo inevitabilmente delusi. Possiamo credere all’esistenza di mondi paralleli virtuali in cui immergerci rischiando di perdere il senso del contesto reale e diventarne complici. Oppure possiamo ribellarci in qualche modo difendendo una buona causa con scarse possibilità di successo, ed in ogni caso senza speranze di mutare il quadro globale. O ancora possiamo inventarci cammini del tutto diversi…

Gli atteggiamenti pratici differenti dipendono dallo sguardo che abbiamo della vita nel suo assieme. La nostra esistenza è collegata da mille fili con quella dei nostri simili: non solo con il prossimo ma anche con chi è lontanissimo; non si tratta unicamente dei soliti noti ma dei perfetti (talvolta fantastici oppure pessimi) estranei. Dovremmo considerare non unicamente chi abbiamo scelto ma chi ci condiziona bene o male. Il nostro specifico è comunque parte, costituita e costitutiva, di processi generali che per quanto ignorati ci riguardano. Il presente che viviamo è più complesso di quanto sappiamo, è già proiettato verso un futuro agognato ma ignoto e riflette – in modi imprevedibili – diversi passati.

Quale può essere la nostra visione della realtà dunque? Come rapportarci alla globalità di cui siamo parte per riconoscerci come protagonisti? Quanto le pratiche di un’esistenza degna di essere pienamente vissuta dipendono dalle nostre idee generali?

Considerando con attenzione e rispetto le ragioni delle opzioni cui abbiamo accennato, ci sembra che ci sia un approccio più credibile ed utile, benefico e condivisibile, idealmente suscitante e coinvolgente, praticamente gestibile e godibile. Possiamo sintetizzarlo come: provare a stare dentro queste società essendo (e per essere) diversi. Cercare di comprendere i motivi profondi e le molteplici forme di resistenza ed insorgenza, persino di rivoluzione della gente comune, in tutto il mondo è inseparabile dal valutare il carattere e la responsabilità dell’oppressione diffusa sofferta, e ci fornisce parametri credibili per la ricerca della felicità. Possiamo capire chi siamo e vogliamo essere rapportandoci ai nostri simili per similitudini, talvolta sorprendenti, e differenze persino incolmabili. Conoscere ed identificarsi con i protagonisti e i loro motivi di riscatto e rivoluzione è inseparabile dal rintracciare i responsabili e i caratteri dell’oppressione, dello sfruttamento e della repressione. Farci un’idea dei molteplici aspetti e problemi macroscopici che segnano le società, e quindi anche noi, ci serve ad orientarci anche individualmente.

Dunque il nesso tra i due termini – stare nella società per essere diversi – è reciproco e causale. Permette di orientarci ed affermarci in positivo e in negativo e, se concepito in modo corretto ed attivo, riduce gli errori di valutazione. Il nostro pensiero umanista socialista è sorto nella loro società e si è nutrito, in modo che ci sembra creativo ed utile, delle elaborazioni dei loro pensatori più insoliti, irriverenti ed alternativi. Analogamente il nostro agire ha provato a fare costantemente i conti con i loro disastri e le loro contraddizioni. Contrariamente a certi atteggiamenti populisti o spontaneisti, questo approccio permette di distinguere nei processi sociali tra ciò che può essere davvero importante e duraturo da ciò che è contingente e secondario.

Il bisogno urgente e crescente di entrare in una fase più esplicitamente costruttiva ed organizzata ci ha sospinto a tradurre le nostre acquisizioni teoretico-generali in una prospettiva antropologica: per riconoscere ed apprendere nelle esperienze, in ogni circostanza dell’esistenza, l’espressione di tratti essenziali della nostra umanità. Perciò parliamo delle prime radici come qualità fondamentali che crediamo contraddistinguano il nostro incedere contraddittorio e complesso: provare ad assumerle come criterio analitico e pragmatico ci sembra possa essere un metodo comune efficace per orientarsi nell’epoca di sconvolgimenti che stiamo attraversando.

La fucina soggettiva del bene

Torniamo quindi alla riflessione sulla morale e l’etica che assieme alla primarietà femminile, alle soggettività, alla coscienza e alla cultura è, a nostro avviso, una fondamentale radice antropologica.

In un libro importante Michael Tomasello1 prova a “fornire una spiegazione evolutiva della comparsa della morale umana, sia in termini di simpatia che di equità”.2 Tutto il testo è ricco di insegnamenti, ipotesi e spunti di estremo interesse per la nostra ricerca. Forse però uno degli aspetti in parte carente è l’approfondimento del ruolo delle soggettività umane nel loro assieme e nella particolarità di ciascuna, soggettività che noi definiamo costantemente complesse e composite. Nella ricerca del bene cambiano gli attori a seconda dello scenario soggettivo: mentre infatti nella reciprocità morale può non esserci direttamente una terza persona (o comunque può esserci in maniera puramente simbolica), nella ricerca e pratica del bene collettivo avremo sempre una sorta di istanza superiore che esprime effettivamente o proditoriamente una qualche volontà collettiva ed eventualmente le sue regole e leggi, perciò parleremo della compresenza latente di una dimensione e di un’autorità etica. Nelle società statali quest’ultima rappresenta una sovradeterminazione negativa, intrinsecamente legata alle culture dominanti, e comunque condizionante. Spesso prende le forme di un luogo comune che si è venuto cristallizzando tramite leggi inique, istruzioni coatte, abitudini popolari e dettami religiosi in millenni di oppressione, sfruttamento e guerre. Si pensi alla concezione popolare prevalente tuttora, anche nelle società democratiche, del ruolo e della libertà delle donne; o ancora, all’idea cristallizzata e malamente rinnovata dell’infanzia e della sua crescita. Insomma si consideri il peso specifico devastante delle culture patriarcali e paternaliste, maschiliste e violente, de facto ampiamente egemoni sotto pelle anche nella “civiltà occidentale”. Pur considerando questo grave handicap, il peso etico e morale della soggettività collettiva rimane fondamentale e non di rado può svolgere una funzione relativamente autonoma che va al di là delle culture dominanti e sfugge alle autorità statali. La dimensione morale (interpersonale) e quella etica (collettiva) si combinano e si configurano sempre in rapporto al comporsi delle diverse figure della soggettività, ognuna delle quali è in qualche modo fondante e fondamentale.

A questo proposito Tomasello segnala opportunamente che “… gli esseri umani contemporanei si trovano sotto l’influenza di almeno tre morali distinte”.3La prima delle quali concerne la cooperazione con gli individui più prossimi per legami famigliari o di amicizia; la seconda è “una morale congiunta di collaborazione nei confronti di specifici individui in specifiche circostanze: la persona successiva che salvo è il compagno che sta arginando l’incendio e con cui sto collaborando (e ho un impegno congiunto) per spegnere il fuoco. La terza è una morale collettiva di norme e istituzioni culturali più impersonale, nella quale tutti i membri del gruppo culturale hanno uguale valore: salvo dalla calamità, in modo uguale e imparziale, tutti gli altri membri del gruppo (o forse tutte le altre persone, se la mia comunità morale è l’umanità in generale), magari con un’attenzione speciale per quelli tra noi che sono più vulnerabili (i bambini per esempio)”.4 L’autore aggiunge di seguito una considerazione importante: “La coesistenza di queste tre morali differenti orientamenti o atteggiamenti morali, se volete è ovviamente tutt’altro che pacifica”.5

Queste acquisizioni, derivanti da un approccio evolutivo, sono convincenti e ci ripropongono una domanda ulteriore: qual è la predisposizione specifica di specie che ci rende necessariamente in qualche modo esseri morali ed etici? Interrogativo che non possiamo aggirare se vogliamo provare a comprendere la molteplicità di possibilità, straordinarie ma anche aspramente contraddittorie, che ci contraddistinguono come umani capaci di creare la propria umanità nei modi più meravigliosi o infami. Dobbiamo risalire alle tensioni connaturate che ci distinguono ed in particolare alla ricchezza peculiare, inarrestabile, molteplice della tensione al bene che ci anima sin dalla nascita. Si manifesta in diverse forme e gradazioni nella ricerca del benessere e dei piaceri, dei progetti e dei doni, del benessere nelle forme più svariate. Questa tensione irrefrenabile è sempre declinata in prime e seconde persone singolari e plurali, senza perciò ignorare le terze persone singolari e plurali, è cioè costitutiva e costituente della nostra soggettività complessa che si compone. A propria volta la nostra interpretazione della composizione soggettiva sarà certamente influenzata o segnata dalla tensione al bene in diversi modi. L’anelito degli esseri concreti al bene nelle sue diverse forme anima, colora, qualifica la rappresentazione mentale ed irrora costantemente l’agire pratico. Nel meraviglioso e misterioso labirinto del nostro mondo interno si mescolano senza posa fattori chimici e biologici diversi che, grazie alla buona scienza, possiamo conoscere nelle loro proprietà peculiari, fino ad un certo punto nelle loro combinazioni, solo in minima parte nei loro effetti: giacché questi ultimi dipendono dall’ordine e dall’indirizzo che noi stessi siamo in grado di definire e mettere all’opera. Possiamo immaginare che la tensione e predisposizione al bene che ci contraddistingue influisca e sospinga, orienti ed alimenti, persino organizzi la nostra vita mentale combinandosi con le altre tensioni, irrorando e vagliando le facoltà, indirizzando ed elaborando la sensorialità, permeando le intenzioni concrete.

La specie umana, da un certo stadio in avanti del suo sviluppo evolutivo, ha sempre ricercato assieme alle condizioni migliori per l’esistenza lo sviluppo del proprio essere nelle sue essenze più profonde. Due aspettative perennemente e diversamente intrecciate, ma non perciò interamente e regolarmente coscienti, talvolta addirittura neppure abbastanza consapevoli. In special modo il pulsare e lo svolgersi delle nostre intime essenze non lascia tracce immediatamente visibili, salvo poi emergere nitidamente nei momenti cruciali. Questa duplice – e talvolta “doppia” – ricerca può divenire frenetica o arrendevole, esplicita o implicita, più o meno cosciente, ma è inevitabile che venga intesa nella prospettiva della soggettività plurale. L’individualista più incallito non può prescindere dagli altri così come l’altruista più generoso non può dimenticare se stesso. È notevole che, come ci insegnano gli studi più recenti, certi tratti salienti della tensione al bene come motivo di reciprocità attiva e positiva si intravedano già dalla prima infanzia.

L’evoluzione ci ha fatto privilegiare la fuga dal pericolo, la crescita umana ha esaltato il raggiungimento del bene: entrambi gli aspetti sono fondamentali a maggior ragione nell’epoca che viviamo.

Tendiamo naturalmente a darci delle regole morali e a forgiare o ad esigere un qualche sistema etico: perché innanzitutto tendiamo a vivere meglio, tendiamo al bene ed inseparabilmente all’altrui, ovvero alle relazioni e alle collettività. Tendiamo a trascendere ed astrarre, ad essere coscienti di questo processo. (12/continua)

Note

1. Michael Tomasello, Storia naturale della morale umana, Raffaello Cortina, 2016.

2. Op. cit., pag. 3.

3. Op. cit., pag. 8.

4. Op. cit., pag. 9.

5. Op. cit., pag. 9.