Antropologia della decadenza
le prime radici e l’ultimo impero/9

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Una crisi generalizzata è in atto su scala mondiale. I poteri oppressivi, incapaci di far
fronte ai problemi da loro stessi creati, dominano e sfruttano la gente comune senza
comprenderla, approfondendo così il baratro tra i palazzi e le società in sfacelo. Gli Stati,
frutto e germe di culture negative, prepotenti e decadenti, privi di una visione olistica della
specie e della natura tutta, causano il deperimento di ogni forma di vita competendo
ferocemente tra loro utilizzando e alimentando la prima e fondamentale risorsa che hanno:
la guerra in tutte le sue forme. Le esistenze di noi tutti sono coinvolte e sconvolte dal caos
planetario in modo più o meno visibile ad occhio nudo. Possiamo intuirlo o percepirlo se ci
soffermiamo sui cambiamenti in corso, non solo pratici ma mentali e psicologici, inerenti
aspettative e contrarietà, speranze e paure.
Queste esigenze dovrebbero scuotere tutte/i coloro che si richiamano più o meno
vagamente alle vecchie idee della sinistra. Le organizzazioni e i raggruppamenti di sinistra
tradizionali, quando ancora sopravvivono in modo effimero, sono soggiacenti, in un modo
o nell’altro, agli assetti dominanti, quindi destinate ad essere complici e vittime ad un
tempo dei terremoti in atto e che verranno. Assai più significativi ed importanti sono i
bisogni positivi avvertiti in modo iniziale, intermittente, tra la gente comune più attiva e
volenterosa che casomai non si richiama alla sinistra o si affida en passant a certe
promesse parzialmente progressiste. Bisogni pratici fondamentali legati alla residenza, al
lavoro, all’abitare, al costo della vita, allo studio, alla convivenza pacifica, che però
rimandano con forza al bisogno di capire, di orientarsi, di sapere come è possibile
affrontare un presente oscuro ed inquietante per immaginare un futuro più limpido e
benevolo, saldando i conti con un passato da superare decisamente o riscoprire
finalmente.

Idee della vita e del mondo
Il primo passo necessario per avviare questa riflessione e comprenderne l’estrema
concretezza consiste nell’assumere un punto di vista proprio, nuovo ed efficace, e
garantirsi una prospettiva che dipende sempre anche dagli altri: significa confrontare gli
sguardi per giungere ad una visione comune. Un passo che comporta una scelta –
diciamo pure una prima scelta – che radica nelle potenzialità, spesso sottovalutate, di
ciascuna/o di farsi un’idea di come vanno le cose nel mondo e come vorremmo che
andassero. Provare a valorizzare queste idee significa parlarne, dialogare, capire e farsi
capire trovando innanzitutto una messa a fuoco comune. C’è un ampio ventaglio di
possibilità a riguardo; possiamo provare ad azzardare un’ipotesi di base concernente due
degli approcci generali possibili per eventualmente commisurare ed inquadrare la propria
idea della vita: un approccio radicalmente antropologico – quindi epigenetico e
costantemente in fieri, che è il nostro; un approccio dogmaticamente storico, perciò
preformato e chiuso, che è quello dominante. È ovvio che la nostra definizione è
partigiana, altrettanto lo è che ciascuna/o avrà sempre degli accenti e coloriture particolari
che attribuirà ad una visione generale con la peculiarità non indifferente che nello
scegliere l’approccio antropologico si è protagonisti e responsabili, per definizione ed
autobiograficamente, della stessa; mentre nell’accettare la visione dogmatica si è
necessariamente imprigionati in schemi ferrei ed inviolabili dall’interno. Possono esistere
altri approcci, o varianti, e ci auguriamo sinceramente che sorgano a sinistra, ma allo stato
attuale ci risulta francamente difficile distinguere in modo sostanziale le idee correnti delle
sinistre tradizionali dall’impianto del dogma dominante.
La convinzione che abbiamo nel nostro approccio nasce da un lungo travaglio di riflessione teoretica e da ancor più lunghe esperienze pratiche, cominciate basandoci su un impianto marxista rivoluzionario che via via abbiamo messo in discussione e in buona parte superato. Abbiamo finalmente cominciato a comprendere come sia possibile e necessario declinare e svolgere la teoresi umanista socialista anche in chiave squisitamente antropologica per individuare ed esplorare quelle radici umane universali in cui crediamo ciascuno possa riconoscersi ed eventualmente scegliere di interpretarle in prima persona ed assieme. Radici da considerarsi prime perché è legittimo presumere che abbiano connotato tutta la vicenda della specie, significandone la trasformazione e venendo mutando a propria volta, sottomesse a spinte contraddittorie senza perciò mai appassire. Identificare le radici come proprie può permettere di cercare e trovare gli spazi e le possibilità di una creazione comune libera e benefica, necessariamente impegnativa proprio perché non già determinata. Questa proposta di fondo è rivolta in primo luogo alla
nostra gente che veniamo incontrando e conoscendo: sollecita una ricerca ed eventualmente delle scelte comuni anche diversamente assunte e praticate. Al tempo stesso è una proposta di confronto leale che rivolgiamo a quei settori della sinistra organizzata che riconoscono non soltanto la necessità dell’agire, ma l’urgenza irrimandabile di una fondazione teoretica e culturale che superi paradigmi sorpassati
oramai non solo insufficienti ma dannosi.
Radicalità contro dogmatismo
Le radici antropologiche, per come le intendiamo, hanno un carattere intrecciato ma al
tempo stesso dinamiche autonome, un carattere universale ma differenziato, permanente
ma cangiante, tendono all’affermazione umana ma sono anche fortemente contraddittorie
nel loro sviluppo. In altri termini: non rappresentano una panacea per tutti i mali ma
un’opportunità reale e complessa da cogliere ed incarnare per vivere meglio la vita. Così
come invece i dogmi prevalenti scaturiscono da una mistificazione e malversazione delle
radici stesse, le attaccano, provano ad inaridirle con tutti i mezzi senza riuscire ad
estirparle ma causando danni immensi e duraturi. Esaminiamo dunque una per una le
radici ed il loro capovolgimento dogmatico.
L’emergere femminile avversato dal comandamento patriarcale
La primarietà femminile è verosimilmente un fatto originario che connota e spiega la storia
della nostra specie tutta. Oltre a garantire la nascita, la crescita e la continuità dell’umanità
– non solo per la capacità di generare ma per una decisiva ed insostituibile funzione
educativa primaria – le donne in (e come) genere inventano e rappresentano da sempre la
cura basilare in senso lato per bimbi ed adulti oltreché per se stesse. Ciò appare naturale
e lo è effettivamente ma diede luogo, per tempi molto più lunghi di quanto non riusciamo
ad immaginare, ad una fondazione culturale pacifica e benefica a tutto campo nelle più
svariate comunità umane e nelle relazioni tra loro: il genere femminile, mentre suscitava
ed esortava le coscienze, svolgeva un ruolo chiave nel comporsi delle soggettività
relazionali e collettive e veniva individuato come il genere depositario e custode dei beni
più essenziali, cominciando dal rapporto rispettoso ed utile con le altre specie. Le vestigia
della Prima era testimoniano questo e ci permettono di ipotizzare che tali funzioni fossero
riconosciute e celebrate come l’incarnazione delle migliori virtù della specie tutta. Anche
dopo il rovesciamento patriarcale ed oppressivo la stragrande maggioranza delle donne
ha continuato a rappresentare una risorsa umana d’assieme decisiva per la
sopravvivenza, la crescita e la formazione umana di base, resistendo al contempo alla
temperie distruttiva, come testimoniano in modo inequivocabile la refrattarietà alla guerra e
la lotta in difesa dei propri diritti elementari.
Nell’era bellica dell’oppressione a dominio maschile il genere femminile è stato
considerato come una sorta di accidente naturale da sopportare e sottomettere attraverso
il vilipendio, la costrizione, la repressione, la prigionia familiare, la privazione dei diritti, la
mortificazione, la violenza sistematica psicologica e fisica culminante nello stupro o
nell’assassinio. Questa pratica costante, al di là delle diverse forme e tonalità che ha
assunto sempre nei diversi ambiti della “civilizzazione” statale, è stata consacrata in
svariati modi dalle caste dominanti delle diverse religioni anche quando i loro misteri fondativi apparivano talvolta più contraddittori. Ciò a riprova che la pratica efferata
prevalsa da cinquemila anni a questa parte si è dovuta cristallizzare in dottrine
conseguenti ed inviolabili che alimentano e giustificano le diffuse e variegate inculture
maschiliste presenti e pressanti in tutto il pianeta. La cristallizzazione storica del credo
antifemminile, malgrado i crimini perpetrati, non è riuscita e non riuscirà a frenare
l’emergere femminile: prima tra le radici primarie dell’umanità.
Le soggettività complesse contraddette dall’estraniazione oppressiva
Consideriamo le soggettività complesse che si compongono come una radice primaria che
riapre costantemente una molteplicità di soluzioni individuali, relazionali, collettive.
Fu così da sempre e le prove sono rintracciabili in tutte le vicende umane, persino nella
perversione più estrema come la guerra. Quella che è la sanzione della massa amorfa,
alienata e massacrante, votata alla morte, non può abrogare le individualità. Non solo per
le figure terribili dei condottieri, ma soprattutto per le magnifiche imprese di tanti eroi che si
sono ribellati all’assassinio di massa e hanno contribuito a salvare tantissime vite. La
relazionalità viene usata strumentalmente dagli eserciti come motivazione al
combattimento, ma è intesa quale estrema ratio tra i soldati per guardarsi le spalle e
salvarsi a vicenda, fino a giungere ad atti di pietà verso il nemico prigioniero o la vittima
designata ed indifesa. La medesima costrizione di una collettività armata ai fini della
distruzione è stata spesso contraddetta dalla diserzione, dalla fraternizzazione con la parte
avversa, dalla solidarietà antimilitarista.
La costante dinamica delle soggettività si ritrova così in ogni manifestazione dell’esistenza
umana, con effetti oltremodo contrastanti, che però confermano l’onnipresenza e la
pertinenza delle tre figure e la loro inalienabilità dalla natura umana. Le differenti forme di
aggregazioni collettive, che talvolta sono sollecitate da motivazioni parziali ed anche
banali, tendono ad assumere una rilevanza che va oltre la ragione specifica e quindi a
fomentare un’aggregazione umana meno superficiale il cui significato non è
necessariamente positivo. Ciò è vero, in qualche misura momentanea, negli ambiti comuni
più vasti ma soprattutto in quelli più ristretti: si pensi ai luoghi di lavoro, alle classi negli
istituti scolastici, al vicinato, dove nonostante i motivi alienanti concernenti le attività svolte
possono affermarsi logiche solidali significative. La nostra specie ha tendenze aggreganti
e ad un tempo gregarie.
La dimensione moltitudinaria è occasione di incontro e quindi di reciprocità, possibilmente
di fioriture relazionali. Possono essere di svariato tipo ma certamente chiamano in causa
una qualche motivazione essenziale che appartiene a ciascuno: cominciando con
l’empatia, la curiosità e la conoscenza reciproca, continuando con la simpatia e gli ulteriori
sviluppi di sentimentalità reciproca che possono fiorire affettuosi o viceversa velenosi. Le
figure della collettività e della relazionalità chiamano in causa costantemente la figura
primaria della soggettività individuale, che è tale, unica ed irriducibile per ciascuna/o e si
viene qualificando, accrescendo o sminuendo, affermando o negando, perennemente
nella dimensione collettiva vissuta, sfiorata o immaginata, in quella relazionale agognata,
realizzata, rifiutata, consolidata, sprecata o superata. In ogni caso la soggettività
individuale resta in qualche misura sovrana, responsabile di fronte a se stessa, capace
generosamente e felicemente di alimentare in positivo le altre figure e quindi le altre
persone; o viceversa di racchiudersi in un individualismo pessimista o esistenzialista che
riduce la stessa possibilità di affermazione personale.
Ora questa processualità libera e caotica, che ha caratterizzato da sempre il viaggio dei
nostri simili su questa Terra, tutt’ora è verificabile nei nostri percorsi di vita che proviamo a
concepire e praticare: è frutto di creazioni aperte, strane, mutabili e… minacciate.
Infatti via via nell’era dell’oppressione bellica, statale e capitalista si è cercato in tutti i modi
di costringere, ingabbiare e persino annichilire la complessità e la composizione delle
soggettività. È da millenni che ci provano ma non ci sono riusciti; ora nella contemporaneità l’offensiva contro le soggettività si è inasprita, è divenuta più subdola e raffinata. La massificazione illimitata delle società, asservite e rese estranee a se stesse, sotto il dominio statale ha dato la stura ad un attacco più complessivo. C’è un tentativo di separare o costringere in un cliché le diverse figure costituenti, cristallizzandole per legge o liquefacendole per incuria. Un legame precostituito è stato imposto nelle caserme ed in fabbrica ed è servito da modello per la vita nelle città che diventano metropoli e quindi
megalopoli. Una realtà asfissiante alla quale sembra non si possa sfuggire viene sublimata
e finalizzata al dominio di pochi – spesso ignoti – sui molti. L’accoglienza, principio vitale
delle soggettività collettive, si è ribaltata in respingimenti. La vita in comune, frutto di libere
e dinamiche associazioni, è dissolta nelle comunità estranee e spesso ostili, nei fatti o
nella percezione. Coppie imposte e santificate invece di relazioni libere, aperte e durevoli
e/o cangianti in virtù dei sentimenti condivisi. Individualità numeriche, etichettate, al posto
di persone che possono realizzarsi come personalità. Alle soggettività reali,
meravigliosamente imperfette nella dinamica e nella dialettica delle tre figure, si cerca di
sostituire una soggettività virtuale non più on-fire ma on-line. È evidente che non si tratta
solo di una particolarità pratica ma inseparabilmente di un’ideologia di alienazione
assoluta che viene imposta ma coinvolge le vittime facendole credere protagoniste. Un
intento inedito che condiziona a priori la possibilità di essere creatrici/ori del proprio
destino assieme, in relazione, individualmente. Un attacco pericoloso che alla lunga fallirà,
non solo perché le soggettività sono implacabili nella loro dinamicità caotica e
riemergeranno anche dal cloud più asfissiante ma anche perché, come vedremo, le altre
radici antropologiche giungeranno in saggio soccorso dei soggetti contro il folle tentativo di
chiusura dogmatica della storia umana. (9/continua)