Perù
Continua la violenza ma le mobilitazioni non si fermano

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In Perù continuano le proteste e le mobilitazioni. Migliaia di persone provenienti da tutto il paese, con tutti i mezzi possibili, si stanno concentrando a Lima e stanno morendo per reclamare i propri diritti. Non sono solo rivendicazioni che chiedono di tornare presto alle urne. Sono proteste incentrate sulla disparità totale che esiste tra una minoranza elitaria che ha in mano l’economia e le ricchezze del paese, e la maggioranza della popolazione che si trova a pagare le conseguenze dello sfruttamento delle risorse delle materie prime, sia in termini di danni ambientali, sia in termini di danni per la propria salute. Il paese è malamente diviso tra quei pochi che vivono all’occidentale, beneficiando di tutti i migliori servizi, e quei tanti che non dispongono né di scuole né ospedali, e che vivono sbarcando il lunario, spesso al limite della sussistenza.

Sono più di due mesi che la violenza imperversa, in una certa misura purtroppo anche da parte dei dimostranti, ma in misura assai più larga a causa dell’indecente condotta della polizia nazionale. Siamo infatti al punto di contare ad oggi 70 morti. Si sta spargendo in queste ore in Perù una campagna intitolata “Lo abbiamo visto tutti“, in cui si denuncia con tanto di video probatori, la crudele e ingiustificata aggressione da parte delle forze dell’ordine nei riguardi dei manifestanti, definiti sommariamente come tutti terroristi. In un caso recente e documentato, un video mostra un poliziotto sparare a sangue freddo e a distanza, ed uccidere un manifestante inerme. Meschinamente i responsabili tentano di giustificare sui media questa morte come accidentale e causata da una banale sassata.

Ricapitolare nel caos della poca informazione su quanto sta accadendo in Perù, è forse utile. L’ormai ex Presidente Pedro Castillo, eletto regolarmente (anche se a fronte di solo il 30% di aventi diritto al voto che si sono recati alle urne, a testimonianza di quanto lo scollamento tra la politica e la gente vige come dato trasversale in tutte le latitudini) era stato più volte accusato di corruzione. Castillo, ex maestro di scuola di origine india, proveniente da una lunga esperienza sindacale, ha rappresentato per molti l’unica via, un’illusione di rinnovamento del paese, una speranza di riscatto degli esclusi. La scelta elettorale d’altra parte era tra lui, rappresentante della lista Perù Libre, l’impresentabile Keiko, collusa con narcotraffico e vari scandali finanziari oltre che figlia del tristemente famoso assassino Fujimori, oppure Rafael López Aliaga, ovvero la faccia più bieca del post colonialismo più razzista. Come scriveva Meily Galvez nel suo articolo del dicembre scorso su Socialismo Libertario in Spagna, simbolicamente e contemporaneamente Castillo incarnava sia la parte genuinamente progressista del paese sia quella parte campesina, più tradizionalista e retrograda. Castillo non è estraneo della decadenza statale e politica peruviana ma in ogni modo la campagna denigratoria e di rifiuto per ciò che rappresentava, è stata senza precedenti. La ragione sta nella volontà di mantenere ben saldi interessi economici di enorme portata nelle mani di quel 20% che detiene le ricchezze del paese. Il Perù razzista inoltre non poteva tollerare che un nativo indigeno governasse il paese. Televisione di stato e stampa nazionale, massimamente corrotta, hanno intessuto una serie di accuse verso Castillo, ancora in fase di accertamenti ma per lo più respinte, fino a diffondere diffamazioni ed istigazione all’odio. In questo clima d’instabilità il 7 dicembre, a poche ore dalla votazione del Congresso che avrebbe dovuto esprimersi per la terza volta su una richiesta d’impeachment ai danni dello stesso Presidente, Castillo pronuncia un discorso alla nazione in cui ordina lo scioglimento del Congresso e l’istituzione di un “governo d’eccezione”, oltre che il coprifuoco in tutto il Perù. Questo atto (ancora difficile da spiegare poiché a tavolino Castillo avrebbe avuto i numeri per non vedere nuovamente approvata la mozione avversa) è stato classificato come un tentativo di colpo di Stato, o autogolpe, insomma un clamoroso autogol. Alcuni dei suoi ministri si sono infatti dimessi senza seguirlo ed il risultato di questa pessima giocata politica è stato che il Parlamento, stavolta si, ha approvato la mozione d’impeachment e ha deciso per la destituzione e l’arresto di Castillo stesso. È a questo punto che, il 21 dicembre scorso, la vicepresidente Dina Boluarte ha preso su di sé la responsabilità del nuovo governo facendo approvare al Congresso una riforma che consente di anticipare di due anni le elezioni generali, ovvero all’aprile 2024. I molti sostenitori di Castillo sostengono, non del tutto a torto, che Castillo non è stato messo in condizione di governare e cominciano ad organizzare cortei verso Lima. Di fronte alle migliaia che hanno deciso di protestare al grido Che se ne vadano tutti, spesso provenienti da regioni rurali poverissime, e coscienti di essere oggetto di un razzismo costante di cui ritengono vittima anche Castillo, la Boularte ha sferrato una repressione inaccettabile, svelando la maschera di uno stato che si definisce democratico e che non lo è affatto. In questo clima le mobilitazioni diventano sempre più coraggiose e la solidarietà va in primo luogo a queste vittime, che peccano di gravi ingenuità ma che comunque si ribellano alle ingiustizie che patiscono. La speranza è che possano presto comprendere che non saranno nuove elezioni a risolvere le questioni vitali per loro, che scelgano di non affidarsi più alle istituzioni statali per ritrovare la loro strada per una vita migliore, recuperando e applicando, dove possibile, quella tradizione di esperienze ed autogestione che hanno per secoli sostenuto il benessere delle comunità in Perù. La procura generale peruviana ha da poco avviato un’indagine farsa sugli abusi ma intanto la capitale continua a riempirsi di quelli che Edoardo Galeano chiamava i nadie, i nessuno. Nel discorso alla Nazione della Boularte di pochi giorni fa, effettivamente, le decine di vittime non sono neppure state menzionate. Per noi tutte le vite hanno valore, a maggior ragione quelle spezzate dalla violenza degli stati oppressori, e in questo contributo c’è anche la volontà di ricordarle.