Antropologia della decadenza
Le prime radici e l’ultimo impero/4

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Le dimensioni di un corpo vengono definite da larghezza, lunghezza ed altezza o profondità, al tempo stesso noi abbiamo una rappresentazione più complessa della dimensione della vita. La percepiamo immediatamente, la consideriamo nell’assieme, la scrutiamo nei trascorsi, la proiettiamo nel futuro, la avvertiamo nella sua inafferrabile totalità. Siamo dotati di straordinarie e capricciose facoltà quali l’intelligenza, la ragione, la memoria, la creatività, il sentimento. Inseparabili: funzionano assieme – spesso contraddicendosi e litigando – cercando laboriosamente una concordanza che sfocia nella nostra coscienza. È di questa che abbiamo più che mai bisogno nell’epoca che attraversiamo.

La storia sdoppiata continua

Viviamo tra pandemia e guerra, primavera che stenta ed estate che si avvicina, stanchezza accumulata e vacanze agognate, persone care desiderate oppure allontanate(si), lavori appassionanti o stressanti, riposi sognati che non giungono mai, letture suscitanti e notizie allarmanti, sorrisi urgenti e mascherine schermanti, combattività pacifista e oscurità bellicista, ricerche empatiche ed atteggiamenti antipatici, speranze intime ed inquietudini globali. 

Di che cosa possiamo essere certi? Della nostra profonda voglia di felicità contraddetta dalle minacce permanenti che gravano sul mondo. Del bene ricercato e del male perpetrato. In effetti entrambi questi aspetti ci accompagnano sempre e spiegano i due volti dell’era storica che attraversiamo.

La nostra storia urge anche adesso e si manifesta nel viaggio forzato, speranzoso e drammatico, di milioni di esseri umani che si spostano sul pianeta cercando una vita migliore; nell’emergere contraddittorio ma costante del genere femminile in lotta per i propri diritti e per l’esistenza stessa, contro violenze e prepotenze patriarcali; nelle bimbe e bimbi che gattonano curiosi verso un’umanità che gli sembra strana; nelle mille e una vicenda di gente volenterosa che incarna, testimonia e sollecita generosità e benevolenza. 

La loro storia continua ad imperversare avendo come marchio infame le guerre permanenti di ogni tipo che infiniti lutti causano sul pianeta, spesso nascoste o camuffate, non raccontate o giustificate. Guerre guerreggiate di vario ordine, grado e caratteristiche le cui vittime sono soprattutto persone innocenti ed in primo luogo bimbe, bimbi e donne. È la logica del dominio oppressivo misurabile negli stratosferici investimenti – crescenti in proporzioni geometriche – fatti da tutti gli Stati per inventare e produrre armi sempre più terribili che prima o poi verranno utilizzate affinché si realizzi il loro infame “valore”. È una logica che filtra in tutti i campi della vita e li avvelena, direttamente ed indirettamente. L’idea e la pratica del conflitto, tra gli oppressori che si sfidano ma soprattutto contro la gente comune, comanda in ogni campo. Parafrasando Clausewitz: per loro la politica, l’economia, la vita sociale, l’istruzione, l’informazione, la comunicazione, le culture, i rapporti umani preparano e sono la guerra fatta con altri mezzi. 

Con intensità e configurazioni diverse la loro storia procede segnata da questa tremenda tragedia che si replica senza tregua da perlomeno 3.000 anni a questa parte. Eppure non riesce ad abrogare la nostra storia: la rende più difficile, travagliata, faticosa ma non la può liquidare. I grandi della Terra attaccano ed intaccano le prime radici, le contraddicono e le maledicono ma non riescono ad estirparle. Ciascuna e ciascuno può verificarlo interrogandosi sulle proprie attitudini ed aspirazioni costanti: rintracciando la propria soggettività plurale e multiforme, variegata e cangiante, misteriosa e sorprendente; riconoscendo la funzione determinante, seppur spesso silente, svolta ad ogni livello e in diversi modi del genere primo da cui nasciamo ed impariamo; ritrovando la luce coscienziale che ci illumina dall’interno e ci dà un’altra misura di tutte le cose; riscoprendo le magie nascoste in una frase, in un libro, in una tela, in una scultura, in un disegno architettonico, in un’opera concepita o compiuta; riandando all’incontenibile bisogno del vero e libero bene che ci pervade e ci sospinge divenendo possibile perché donato, ricevuto, condiviso.

Così come le prime radici sono intrecciate perennemente tra loro e tendono ad un’omeostasi benefica, allo stesso modo ma al contrario le loro deformazioni oppressive sono aggrovigliate e si peggiorano vicendevolmente in una circolarità negativa. Così come la risultante potenziale delle prime radici è il bene supremo della vita condivisa, la conseguenza del loro deterioramento è il trionfo del male assoluto: la morte violenta persino in forma di sterminio. Il punto di vista dell’organismo umano non prevede una centralità ma una pluralità molteplice e costantemente in farsi, dove ogni aspetto feconda e si accresce degli altri. Invece il meccanismo oppressivo ha forgiato il proprio centro di gravità nella guerra, organizzata e preparata, proclamata ed attuata. I delicati equilibri ontologici per loro natura prevedono complicazioni e contraddizioni da risolvere ma tendono all’armonia e non necessariamente alla competizione. I prepotenti squilibri oppressivi viceversa, per definizione, generano concorrenze, scontri e conflitti di ogni tipo.

Comincia una nuova fase

Questa gigantesca contrarietà storica (tra le storie) segna l’era in cui viviamo ed è destinata a continuare oscillando tra fasi differenti. Adesso lo squilibrio minaccioso tra i diversi poteri oppressivi si fa più evidente con la guerra tra Russia ed Ucraina, che potrà durare più o meno a lungo ma apre comunque una fase differente nei rapporti tra gli Stati che provano a ridisegnare e spartirsi un mondo già in affanno sotto la loro cappa. L’aspetto forse più significativo dell’entropia regnante nel loro ambito riguarda il fatto che tutti i principali antagonisti tranne uno vivono nell’incertezza per la mancanza o la pochezza di un piano strategico.

La Russia, protagonista dell’aggressione all’Ucraina, è prigioniera del sanguinoso incubo di un impero anelato che ha assunto prima le forme dello zarismo, poi, transitando attraverso una speranza rivoluzionaria brutalmente tradita, è precipitata in una nuova lunga notte di dittatura burocratica ugualmente feroce e senz’anima come i regimi che l’avevano preceduta. Dopo una serie di trasformazioni successive, mai qualitative, è giunta ad avere un governo autocratico ed autoritario che ha inizialmente flirtato con le democrazie e il “libero” mercato per poi tornare alle origini accompagnata dalle invocazioni e dalle benedizioni della Chiesa nazionale.1 Si tratta di un territorio sterminato, ricco di materie prime, abitato da variegate popolazioni a tutt’oggi narcotizzate dal mito della santa madre Russia e da una disinformazione sistematica e raffinata orchestrata dagli hacker di regime. Il capo supremo ha ritenuto che fosse il momento adatto per far sentire la sua notevole forza militare attaccando l’Ucraina che oppone una resistenza importante anche grazie agli appoggi occidentali.

Gli Usa sfoggiano e vendono il loro arsenale distruttivo, fornendo al governo Zelensky grandi quantità di potenti armi (solo “difensive”? Bah…) e alimentando la guerra, provando a rinnovare la meritata, crudele e stinta funzione di gendarmi del mondo. Frattanto nel loro ventre molle fermentano contraddizioni implosive concernenti la stessa identità nazionale, oramai ufficialmente segnata dal razzialismo di Stato, dalla cancellazione culturale e da un attacco pazzesco e strisciante alla definizione stessa di genere femminile; last but not least, la passione mortifera per le armi negli States rende la violenza endemica ed omicida sempre più diffusa e frequente. Segnali di un intento liquidatorio dello stesso concetto ricco, contraddittorio e complesso di specie umana.2

L’Europa va appresso agli Usa con accenti e posture diversi. Il governo Draghi si è allineato rapidamente, quello inglese di Johnson è ancora più decisamente guerrafondaio, quello spagnolo dopo qualche esitazione si è accodato, quello tedesco ha problemi seri di vicinato e di energia ma segue il carrozzone, è possibile che Macron rieletto provi ad esercitare una maggiore iniziativa diplomatica forse perché convinto che la grandeur d’oltralpe possa realizzarsi tramite una maggiore autonomia dell’Unione europea. 

Altre potenze, come l’India innanzitutto, sono in prudente attesa degli sviluppi mondiali ma anche interni.

Nel panorama della loro globalizzazione già inquietante, mutato in peggio all’improvviso, ogni potentato statale, in luogo di provare a ristabilire una pace per quanto instabile, cerca di sfruttare a proprio favore la situazione, incurante del massacro in atto. Queste vicende affondano radici nella crisi del sistema democratico globale emerso dalla Seconda guerra mondiale e dominato dagli Usa,3 che per primi cercano di riguadagnare il terreno perduto.

L’unica potenza che ha un proprio disegno strategico alternativo nell’ambito oppressivo è la Repubblica popolare cinese. Caratterizzata da un regime burocratico fortemente autoritario che permea ogni aspetto dell’esistenza – al momento attuale in grado di controllare persino i traffici di internet – e cerca, anche facendo leva sulla propria lunga storia di cui rivendica la continuità, di sviluppare un piano di penetrazione e dominio industriale e commerciale verso altri Paesi tramite straordinari volumi di affari con l’Europa, gli Usa e la Russia. Capace di recuperare ed attualizzare il confucianesimo e di esaltare il modello di civilizzazione coatta che da millenni caratterizza il Paese, pur con alcuni cambi significativi ma non perciò qualitativi nell’era contemporanea. Inseparabilmente l’altro fondamentale vantaggio nella competizione oppressiva è rappresentato dal carattere modernamente imperiale del suo assetto statale chiuso in se stesso e gestito da una gigantesca diramazione burocratico amministrativa e poliziesca. Impietoso nella repressione interna, il regime di Pechino si è guardato bene dallo spargere sangue fuori dalle sue frontiere negli ultimi decenni, senza perciò smettere di armarsi. Naturalmente il limite intestino sta nel carattere fortemente e diffusamente dispotico che sembra destinato ad accrescersi con le recenti misure tese ad attribuire un potere assoluto al presidente Xi Jinping.4 La guerra attuale non sembra convenire alla Cina e al suo progetto di nuova Via della Seta tuttavia evita di pronunciarsi direttamente. Gli affari e l’amicizia con il vicino russo interessano Pechino, ma al tempo stesso l’Europa nel suo assieme, e l’Ucraina in particolare, sono fondamentali nel suo disegno espansivo; così come è molto attenta all’attivismo militare statunitense, non ne sottovaluta affatto la potenza distruttiva, ma sa che le regole dell’egemonia non dipendono mai solo da quella. Considera ancora gli Usa, non senza ragione, il suo avversario fondamentale nella competizione per il dominio mondiale concepito tuttavia in modo radicalmente diverso da Washington.

Diversi motivi ci inducono a credere che dentro il processo generale e differenziato della decadenza stia cominciando una nuova fase segnata da un’ulteriore aggressività bellica, rinnovata e dichiarata, e da una crescita della conflittualità su tutti i piani. La decennale crisi del sistema democratico globale a dominanza Usa ormai implode – un emblema ne è il recente ritiro dall’Afghanistan occupato – aprendo nuovi scenari altrettanto inquietanti e ancor più caotici. La criminale aggressione russa ad un popolo dalla storia tormentata e dalla recente ed oscura democrazia – come tutte del resto – che accoglie nel suo esercito criminali neonazisti non è solo una guerra ma un casus belli, letteralmente. Nel senso che ha messo in moto il viscerale bellicismo di tutti gli Stati democratici. Aizzati dagli Usa che dispiegano senza risparmio il loro arsenale distruttivo fatto di armi e spioni, consiglieri e contractor, tecnologie e propaganda, gli Stati europei per ora obbediscono non senza qualche inquietudine. La diplomazia tace o annaspa in viaggi palesemente inutili e viene ignorata da Putin e sbeffeggiata da Zelensky. Riprove, se ancora ce ne fosse bisogno, del vero ruolo della politica come strumento ancillare dell’anima nera di ogni Stato. La politica, l’unica che conosciamo nelle sue diverse sfumature sempre più difficili da distinguere, è sempre più evidentemente una modalità secondaria dell’oppressione: in un modo o nell’altro accetta, assume e tenta di coprire la logica bellica. Non a caso viene crescentemente soppiantata dai social grazie alla loro più istantanea e diretta capacità di autoinganno. L’ulteriore decadenza politica è drammaticamente vera innanzitutto per le formazioni di sinistra e ricade sulla gente che ancora vi si riconosce. Non a caso partiti tradizionali, come quello socialista francese, si dissolvono seguendo il destino che fu del Pci, e aprono paurosi vuoti nelle coscienze già sofferenti di tanta gente in buona fede che ha creduto in una via politica al cambiamento.

Tutto sta mutando drasticamente nella loro brutta storia che inevitabilmente ci riguarda e ci coinvolge, ma guai a continuare a credere che noi, protagonisti potenziali di un’altra storia, si possa ragionare con le loro categorie.  

Interroghiamoci sulle nostre esistenze

Dunque, tornando alla nostra storia, è non solo giusto ma indispensabile chiederci che cosa sarà da ora in poi delle nostre esistenze.

Veniamo da due anni e più di pandemia e adesso la guerra è esplosa vicina, minaccia di estendersi con il rischio nucleare incombente. Proviamo a razionalizzarla se non a rimuoverla, ma non ci riusciamo e tra breve la sentiremo anche attraverso il boomerang delle sanzioni contro la Russia.

Quali sono le conseguenze quotidiane, intime, di questi avvenimenti globali? Chissà, mentalmente percepiamo qualche mutamento. In generale: le persone più volenterose e ben intenzionate sono spesso in confusione se non addirittura in arretramento; chi prima era indifferente oggi probabilmente si chiude ancor di più nel proprio microcosmo; i retrivi sguazzano e schiamazzano ma eserciti e milizie gli rubano la scena. La quotidianità scorre strana, le paure si annidano fuori e dentro di noi, dietro le mascherine la solitudine diviene più evidente, la diffidenza o la strafottenza si percepiscono per strada. I telegiornali ci bombardano di cattive e sospette notizie che vicini e conoscenti spesso riecheggiano: complottismi assortiti serpeggiano a significare ulteriormente la crisi della ragion di Stato tradizionale ma anche ad avvelenare le soggettività. Forse per il virus o per il collasso delle strutture sanitarie che ne è seguito abbiamo perso delle persone care o dei conoscenti, o forse no, ma un’idea di provvisorietà dell’esistenza con tutta probabilità si è accentuata.

Avvertiamo dentro un senso di fragilità venata dalla melanconia per un passato recente o perlomeno per come lo pensavamo. Presunzioni e certezze vacillano, la solitudine che le loro culture ci rammentano e celebrano di continuo più o meno sottilmente ci appare ancor più tangibile ed inevitabile. Sembra davvero che l’unico rifugio sia nel privato. Ma anche volendo, con quali garanzie? 

Al fondo sappiamo che saremmo ostaggi dei loro ricatti, prigionieri di quello che ci propinano. Siamo disposti ad accontentarci della perniciosa ossessione social, di qualche festa formale tra amici e di certe adunate improvvisate tra perfetti sconosciuti piuttosto che provare a costruire relazioni autentiche, difficili, impegnative, piene di interrogativi non scontati, impastate dall’arte dell’ascolto e dalla capacità di guardarsi negli occhi, dalla gentilezza e dalla comprensione, dove un principio di simpatia si invera assieme e solo così ci si può scoprire a vicenda come amici, o innamorati, o in amore, o come buoni conoscenti? Davvero possiamo credere che l’ammassarsi tra estranei, spesso afasici, chini sugli smartphone, riottosi alla reciprocità e non di rado ostili, concentrati freneticamente sullo smanettare e sul fare i propri interessi ci piaccia? Insomma crediamo che quella che chiamano società di massa sia umanamente soddisfacente, oppure avvertiamo il bisogno di stare assieme e di imparare a farlo in un concerto come in un’assemblea, al cinema prima e dopo lo spettacolo per parlarne dal vivo, al lavoro come nei luoghi di studio, tra vicini e viaggiando in treno: cioè non abbiamo forse desiderio di comunanza, di avere cose davvero in comune con altre persone, riconoscerle, condividerle? Fin quando saremo disposti a contrabbandare l’individualismo frenetico e freddo, la chiusura in se stessi, l’avidità travestita da capacità, i silenzi ipocriti o le parole prefabbricate come mirabolanti qualità di una sedicente libertà personale? Davvero non speriamo o perlomeno sospettiamo che possiamo aspettarci e meritiamo di più, che possiamo essere una bella opportunità per le altre e gli altri come loro per noi?

Se andiamo alle radici prime, se le riscopriamo dentro di noi nella loro veracità e concretezza possiamo interrogarci in modo più serio, utile e benefico sulla nostra esistenza, capendo che adesso è più che mai necessario ed urgente farlo.

La nostra intelligenza ci fa intuire la complessità degli esseri umani; la ragione può assemblare, verificare, confrontare i diversi modi per concepirle queste soggettività composite e complicate che siamo; la memoria può scoprire tracce non solo di guerra ma al contrario di straordinarie imprese di riscossa e resistenza, di rivoluzioni e costruzioni, di pacificazione e di comunione realizzate da persone come noi; la creatività e l’immaginazione possono indicarci strade inedite ed insolite per cambiare in meglio assieme; il sentimento della vita che ci pervade può divenire finalmente più nostro, attivo, propositivo, operativo nel senso alto del termine.

Certo non è semplice, ma conoscete forse qualcosa di veramente bello che lo sia? Sapete forse di qualche grande amore o straordinaria amicizia dove è stato tutto tranquillo e liscio, che non sia stato costruito con pazienza e sormontando difficoltà, quindi crescendo con maggior soddisfazione? L’aspetto più difficile probabilmente sta nell’incipit, cioè nel sapere che si può scegliere davvero una propria via, di essere protagoniste/i della propria storia esplorando ed inverando il proprio mondo interno. Imparare a scegliere la nostra vita dunque, provare seriamente a farlo: di questo si tratta oggi più che mai. 

Qui interviene la coscienza, questa meravigliosa sconosciuta che pure ci muove, spesso fugace, trascurata, incerta, capricciosa nel rappresentare la vita; eppure talvolta all’improvviso ci fa sentire forti, capaci, sicuri, coerenti perché abbiamo un fine, uno scopo, una missione. Certo si tratta della nostra felicità possibile: ma proprio perciò abbiamo bisogno delle altre e degli altri, di trovare con loro una possibile concordia e delle prospettive comuni che siano immediatamente soddisfacenti mentre le costruiamo. È troppo eppure è il minimo di cui abbiamo bisogno. D’accordo, nessuno può farcela da sola/o e la stessa coscienza personale non basta: le coscienze hanno bisogno di referenti comuni, di un linguaggio dell’anima e delle cose, di segni e simboli condivisibili e comprensibili, di luoghi e risorse in cui riconoscere e trovare conforto ed utilità, di strumenti ed istanze per crescere e migliorare assieme, cioè nell’unico modo possibile. Così come la morale personale è indispensabile ma non basta: dev’essere supportata da un’etica comune, le coscienze libere in cerca del bene richiedono e devono provare a fondare e vivere culture nostre, libere e benefiche.

Può sembrare affascinante ma certamente è complicato, probabilmente astratto, forse utopico. Eppure guardando con attenzione, pensandoci in profondità, tutto ciò che di bene o male ha compiuto la nostra specie è sempre cominciato così e quindi nulla impedisce che si possa ricominciare se non la nostra stessa inerzia. Provando a ritornare, sulle ali di un’immaginazione onesta, ai grandi temi della storia ci accorgeremo che ogni attività umana è cominciata come storia nostra, della gente comune, e forse potremo scoprire in noi stessi quelle capacità di scelta, architettura e costruzione di un nostro mondo: piccolo ma prezioso, pieno di contrarietà e problemi ma innanzitutto pacificato, condiviso, individuale relazionale e comune, amoroso perché in primis femminile, cosciente e colto che si valorizza fondando i propri valori. Possiamo immaginare e scegliere di fondare un mondo e una storia particolari che non hanno nulla a che vedere con il malessere, la cattiveria, la conflittualità, la guerra e l’oppressione che caratterizza il loro mondo e la loro storia globali. Possiamo aspirare ad una rivoluzione umana nel senso più etimologico e squisito del termine.A proposito di attività propriamente umane ri-pensiamo per esempio a come nacque l’economia…

Dario Renzi (4. continua)

NOTE

1. Vedi Piero Neri, “Dalla Russia all’Urss alla Russia/1 e 2. È sempre Stato”, La Comune, nn. 397 e 398.

2. Vedi di Barbara Spampinato “Nella fine del sistema democratico globale. Comincia l’implosione”, La Comune, n. 395; “Se tra indizi fanno una prova” e “Gli Stati Uniti contro le donne”, La Comune, n.397.

3. Vedi di Dario Renzi, La nuova epoca e il marxismo rivoluzionario, 2 voll., Prospettiva Edizioni, 1996; Democrazia. Un orizzonte insuperabile, Prospettiva Edizioni, 2003; L’umanesimo della comunanza rivoluzionaria, Prospettiva Edizioni, 2011; Adesso la storia. Editoriali 2014-2020, Prospettiva Edizioni, 2020. Vedi anche “Nella storia che cambia. La sfida più grande”, Umanesimo socialista, n. 5,

4. Vedi di Lorella Baldeschi “Un’altra idea della guerra”, La Comune, n. 388; “In cerca di nuovi equilibri”, La Comune, n. 396. 

terza parte