Antropologia della decadenza e del riscatto – Le prime radici e l’ultimo impero/14

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LA NASCITA DELLA MORALE

La sensorialità agente ed il comportamento reciproco – ovvero la postura, la gestualità – sono veicoli immediati della ricerca e dell’offerta del piacere, del compiacimento, dell’attrazione tra gli esseri umani sin dalla prima infanzia. Dunque è esperibile, verificabile e dimostrabile quotidianamente che queste caratteristiche sono proprietà integranti e costituenti della natura umana. Infatti hanno una prima insorgenza infantile del tutto simile ad ogni latitudine, poi viene interpretata e declinata diversamente a seconda delle soggettività che crescendo si definiscono in virtù della presa di coscienza, all’interno di un determinato contesto familiare o assistenziale, e si nutrono delle varie culture di riferimento. È degno di nota soffermarci su come, da bimbe e bimbi, tutti ci assomigliamo in questa tensione essenziale, ancorché primigenia, verso la felicità altrui e propria: una prova indiziaria tangibile ed inequivocabile dell’unitarietà della specie e della sua predisposizione originaria al bene. Crescendo sarà questa medesima radice primaria a qualificare e diversificare, in modo anche fortemente contraddittorio, l’indirizzo delle persone che diventiamo.

Crescendo possiamo essere buoni o cattivi ma lo siamo in modo necessariamente unico perché, seppure in un contesto dato e costantemente in relazione, il modo in cui concepiamo ed esprimiamo la ricerca del bene nostro ed altrui dipende innanzitutto dalla nostra soggettività individuale. Le nostre possibilità di affermazione morale sono inseparabili da come interpretiamo il nostro bagaglio essenziale e quindi dalle scelte che compiamo e dalle responsabilità che ci assumiamo.

Nel cammino dell’esistenza la sensorialitàed il comportamento ci accomunano e al tempo stesso ci differenziano: possono essere intesi e praticati nei modi più svariati ed avere significati diversi, imprevedibili, contradditori in parte o in toto.

Contraddittorietà della ricerca morale

Sin da piccoli siamo capaci di sorridere ma anche di mostrare disgusto o fare altre smorfie. Crescendo via via elaboriamo una varietà di capacità espressive che corrispondono alla ricerca intima di noi stessi nel rapporto con le altre e gli altri. Il nostro volto e i nostri gesti possono mostrare allegria, compiacimento, felicità o al contrario tristezza, dolore, costernazione; siamo in grado di esprimere in modo semplice ed immediato serenità o inquietudine, placidità o rabbia, concordia o indignazione; possiamo far trasparire in un attimo i sentimenti più profondi: l’amore o l’odio. L’atteggiamento fisico incarna i nostri stati d’animo sinceramente, oppure può simularli o ancora nasconderli dietro l’indifferenza.

Non sfuggirà la grande differenza tra i piccoli, che al principio non sono in grado di mentire ma imparano in fretta, e gli adulti che, nella società oppressiva, sono addestrati e spesso costretti alla menzogna, al trattenimento o alla mascheratura anche nel linguaggio corporeo. Molto spesso le donne devono contenersi o censurarsi nella gestualità e nell’atteggiamento per evitare l’aggressività o l’invadenza maschile. Gli individui di entrambi i generi nelle attività lavorative devono concepire il linguaggio, anche corporeo, come arma di autodifesa ma anche di raggiro o di aggressione: atteggiamenti che sono frutto dei veleni oppressivi e competitivi.

Il nostro sguardo in particolare può essere diretto o ammiccante, rispettoso o di sfida, promettere comprensione e vicinanza o al contrario minacciare strafottenza ed ostilità. Il gesto più semplice, talvolta compiuto inconsapevolmente, può incoraggiare l’altra persona, incitarla o rasserenarla, esprimere solidarietà e prossimità o al contrario respingerla o deluderla, lasciar trasparire distanza, estraneità o prevenzione fino alla malevolenza. Un semplice saluto con la mano o con un movimento della testa può indicare, a seconda delle circostanze, diversi gradi di attenzione testimoniando la nostra naturale socialità, così come al contrario il “non ti curar di lor ma guarda e passa” è l’emblema dell’innaturale estraniazione sociale. Ciò che trasmettiamo agli altri con la postura, lo sguardo, i gesti concerne sempre noi stessi: ne siamo influenzati persino in modo istantaneo, quasi involontario; riecheggia nel nostro intimo amplificato o distorto dalla reazione delle altre persone o dal loro comportamento verso di noi, e attraverso le sensazioni ci suggerisce qualcosa sul prossimo e su noi stessi. Non ne abbiamo il tempo e non consideriamo abbastanza importante questo flusso di messaggi quotidiani. Filosofia e psicologia ne sottostimano grandemente il significato aurorale e costante nell’elaborazione e nella pratica morale: invece è proprio dal nostro balbettio o sillabare sensoriale e corporeo che prende le mosse quella meravigliosa ed impervia avventura concernente la ricerca della libertà e del bene.

Il silenzioso ma sostanzioso lavorio della nostra sensorialità e fisicità primaria al principio della nostra vita dipende dal temperamento, da ciò che assorbiamo nell’ambito in cui siamo nati e cresciuti, ma ben presto cominciamo a prendere delle decisioni anche se non sappiamo esattamente che cosa stiamo facendo, perché e come. Avvertiamo le reazioni altrui e le interiorizziamo ma non siamo ancora in grado di processarle ed intenderle compiutamente, cioè coscientemente. Siamo cioè inevitabilmente condizionati e di certo non abbiamo ancora la capacità di compiere delle scelte più di fondo eppure abbiamo un atteggiamento che tende ad essere morale. Dunque il nostro sentimento e comportamento morale comincia ad emergere naturalmente e culturalmente (perché prende le forme dettate dal contesto) già in fase precosciente, quando ci accompagna un senso del nostro sé. Un’idea del nostro io urge ma non è ancora pienamente agente: si verrà definendo nei suoi contorni fondamentali con la piena maturazione di coscienza suscettibile di ulteriori sviluppi, positivi o negativi, durante tutto il percorso dell’esistenza. In una prima fase della vita ci viene attribuito un carattere buono o cattivo, a seconda del modo in cui viene percepito dagli adulti il nostro comportamento nei suoi tratti salienti. Possiamo accettare, rimanerne indifferenti o rifiutare questo giudizio che in qualche modo influenzerà la nostra crescita, ma l’urgere della nostra personalità cambia lo sguardo e la prospettiva: cominciamo ad avere una capacità di giudizio autonomo che ha evidentemente un forte tratto morale. Attraverso una riflessione autobiografica – risalendo ai più vividi ricordi d’infanzia: alle gioie e ai dolori, alle belle sorprese e alle delusioni – possiamo quindi ragionare sul farsi dei nostri comportamenti. I processi elementari quotidiani della nostra ed altrui sensorialità, come la esprimiamo e come la recepiamo, ci forniscono delle tracce sul nostro carattere e la formazione della nostra personalità. Certo, rovistando nei nostri trascorsi infantili non possiamo pretendere di riconoscere un comportamento morale nel senso più compiuto. Sappiamo che non si tratta ancora della ricerca del bene nel significato pieno ed articolato ma probabilmente possiamo scovare dei ricordi di messaggi che abbiamo trasmesso o ricevuto da nostri coetanei o da persone adulte. Messaggi che riecheggiano dentro di noi, hanno concorso in qualche modo a determinarci nel bene e nel male, possono cristallizzarsi nell’abituarci a noi stessi, ma il cui significato è sempre possibile riscoprire e cambiare grazie alla coltivazione della coscienza presente di noi con e per le/gli altre/i e di loro per noi. Questa ricerca autobiografica può contribuire a farci essere persone migliori anche nei comportamenti quotidiani (e tramite essi). Conoscere l’alfabeto morale, saperlo usare e condividerlo, insegnarlo mentre si continua ad impararlo può avere conseguenze positive a cascata.

Invito all’autobiografia

Conviene tener presente il percorso che sto seguendo e vi propongo. Partendo da una ricostruzione e da una disamina delle esperienze vissute direttamente e condivise con gente più o meno nota, o persino del tutto ignota, posso riconoscere che nel corso della mia esistenza ho incrociato, sfiorato o frequentato, tante persone di tutte le età e le condizioni: alcune sono divenute importanti o persino fondamentali per me, ma tutte hanno in qualche modo lasciato una qualche traccia evidente o vaga, vivida o subliminale ma comunque di un qualche senso e significato nella formazione della mia personalità e posso supporre che ciò sia stato vero in qualche misura per quello che ho potuto trasmettere loro. Quindi posso desumere da questo excursus esistenziale, animato dalle esperienze sensibili, dei tratti essenziali connaturati al nostro essere umani che riguardano una tensione permanente verso le/gli altre/i. Questa tensione è caratterizzata da una naturale espressione e ricerca del piacere reciproco che si associa confusamente al desiderio e bisogno di collaborare e poi di cooperare; quindi rappresenta prima una vaga percezione del bene e dei vantaggi reciproci e poi via via un’idea più compiuta dell’uno e degli altri. Posso riconoscere che tale processualità ha contribuito e contribuisce al configurarsi del mio io cosciente e al sentimento morale che mi accompagna nella definizione delle relazioni che vivo e nella partecipazione alla comunità di cui sono parte.

Dunque parliamo di un approccio metodologico autobiografico che chiunque voglia può sperimentare traendone vantaggio nella conoscenza di sé e degli altri, acquisendo un miglior controllo ed indirizzo benefico dei propri comportamenti morali, proponendo(si) una condivisione più sincera nei rapporti con il prossimo. Alla lunga, se un certo numero di persone si ingaggiano in questo senso, con determinazione e pazienza, oltre ad arricchire la propria personalità e costruire relazioni benefiche possono contribuire a dar luogo ad aggregazioni moralmente positive ed alternative al degrado e alla trascuratezza imperante sul terreno fondamentale delle soggettività.

La gente che si riconosce o si orienta a sinistra è animata da valori come la solidarietà, la giustizia sociale, l’accoglienza, la pacificazione che rimandano inevitabilmente ad una visione morale ed etica. Le forze organizzate della sinistra tradizionale hanno da tempo abbandonato qualsiasi richiamo alla “questione morale”, già concepita in modo tradizionale, accentuando anche su questo terreno la loro subalternità allo Stato. Come vengano concepiti dalle istituzioni oppressive, anche quelle democratiche, la libertà e il bene delle popolazioni, delle relazioni e degli individui è sotto gli occhi di chi vuol vedere: dalla partecipazione alle guerre al respingimento degli esseri umani provenienti da altri paesi, dalla mancanza di difesa dei più deboli e dei più poveri all’impunità per ladroni ed imbroglioni eccellenti, dal disastro dell’istruzione pubblica e privata alla negazione dei diritti delle donne e delle persone che operano diverse scelte sentimentali e sessuali. La decadenza di un regime come quello italiano si percepisce dalla devastante immoralità di cui è interprete e sostenitore oltreché dalla perdita di credibilità e partecipazione al voto di tanta parte della cittadinanza. I raggruppamenti di sinistra che si vogliono alternativi, peraltro diversi tra loro, in generale non danno alcun rilievo alla dimensione morale ed etica, forse affidandola ad un miracoloso restyling della democrazia o vagheggiando della catarsi di una rivoluzione mondiale. Fanno parziale eccezione per la loro pratica settori significativi di volontariato di diversa estrazione ideologica, le compagne e i compagni di alcuni centri sociali e soprattutto quelle/i de La Comune. Però anche i seguaci del giornale per cui scrivo e le cui idee condivido, pur esprimendo una convinzione generale apprezzabile e sincera, mi sembrano esitanti ed incoerenti o inconseguenti in questo impegno che sin da subito ed ancor più alla lunga risulterà decisivo per dare impulso qualitativo a comunanze autonome capaci di far vivere e proporre valori di libertà e bene, bellezza e giustizia, educazione e verità.

Il vissuto ha conseguenze dirette e forti nell’elaborazione e nella fondazione comune, precisamente perché sollecita e responsabilizza tutte/i coloro che si impegnano a riconoscere, ritrovare e ravvivare le proprie radici antropologiche mettendole all’opera con coerenza, rigore e creatività.

Intanto vale la pena considerare un punto d’arrivo provvisorio che è anche un punto di ripartenza filosofico, teoretico e pratico.

Consideriamo ragionevolmente che siamo tutte/i propensi sin dalla nascita, in principio andando al di là dei condizionamenti del contesto, a movenze pre-morali che si manifestano con adulti ed altri bimbi nel provare a suscitare, donare e ricevere piacere e ci predisponiamo a collaborare.

Tali atteggiamenti concernono, attivano e qualificano la sensorialità primaria e la gestualità dei bimbi e rappresentano un modo fondamentale della comunicazione e del recepimento nella prima infanzia, ma lo rimarranno lungo tutto l’arco della vita.

Quindi possiamo parlare di una sensorialità che si/ci orienta moralmente sin dalla fase pre-cosciente ma, nella misura in cui siamo protagoniste/i del piacere nostro ed altrui relazionandoci, cominciando a rendercene conto tendiamo a prendere coscienza di noi e degli altri.

Questi atteggiamenti condivisi si accentuano e si consolidano con i caregiver; le madri innanzitutto rappresentano una fucina della crescita personale, un alimento della coscienza ed un primo sviluppo della sentimentalità (non solo della sensorialità) protesa verso il bene (non più solo il piacere) che avvertiamo verso la persona che si prende cura di noi e cominciamo a sapere di essere importanti per lei.

Sembra possibile dunque ipotizzare che la nostra coscienza, persino nella sua crescita iniziale, tenda ad essere sentimentale e morale ad un tempo, guidandoci nelle relazionalità e collocandoci nella collettività. Ma la coscienza non smette di essere un mistero.

Dario Renzi (14. continua)