Antropologia della decadenza – Le prime radici e l’ultimo impero/13

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Dove comincia la ricerca del bene

Ripartiamo dal nostro vissuto quotidiano, anche quello più elementare e all’apparenza banale, per cercare di comprenderne scaturigini e dinamiche, significati e contraddizioni possibili nella ricerca del bene: ciò che chiamiamo morale. C’è un originale, radicato ed insopprimibile desiderio di affermazione e felicità in ogni essere umano: comincia sin dalla nascita e ci accompagna per tutta la vita. Il cammino dell’esistenza è motivato e segnato da questo anelito costante la cui urgenza può comportare magnifici slanci e terribili cadute. Dal fulgore di un bene donato e condiviso all’orrore di un male causato e patito, con tutte le sfumature tra i due estremi: ecco il peculiare destino della nostra specie. Le circostanze ed il caso, la fretta ed il contesto, l’ansia e l’incoscienza certamente incidono nei percorsi verso una felicità possibile, ma alla lunga sono l’attivazione delle nostre potenzialità e le scelte che compiamo i fattori realmente decisivi. Perciò è importante provare a sapere dove e come tutto comincia, in che modo può proseguire e vedercene protagoniste/i.

Sin dal principio nel nostro cammino di crescita covano dei segreti: tensioni implicite e condizionamenti imprevedibili, meravigliose possibilità che pure nascondono torbidi inganni; tentare di esplorarli dovrebbe essere di enorme interesse per chiunque. Capire dove e come l’anelito al bene comincia a prendere corpo è un passaggio fondamentale per fondare ed orientare la ricerca di una felicità possibile che ci anima come esseri umani. In particolare questo aspetto è decisivo per chi come noi cerca un cammino alternativo a quello imposto dalla società statale, bellica ed oppressiva, sfruttatrice e cinica, o è importante anche per chi avverte un’inquietudine crescente nella propria esistenza quotidiana.

Di fronte a questa esigenza imprescindibile si ergono ostacoli ingombranti: una cultura dominante statica e screpolata ma non perciò meno greve; una prigionia più o meno esplicita ma onnipresente, direttamente o indirettamente, costituita dalla logica della famiglia patriarcale; un sistema pedagogico dogmatico e falsante in “ogni ordine e grado”; ed in ultimo, ma non ultimo, il senso comune diffuso tra la nostra gente che combina spesso la rassegnazione al quadro esistente con l’illusione di fughe nel privato: pericolosa miscela che attenta alle qualità e al protagonismo morale ed etico che riguardano ogni persona.

L’orientamento dei sensi verso il piacere

Proviamo a soffermarci sulla prova primaria dei sensi,1 della postura e dei comportamenti elementari: consideriamo come sin dall’infanzia siamo orientati al gradimento e al godimento.

Cominciamo dalla nostra infanzia.2 La vista di cose e di persone attrae bimbe e bimbi: appaiono curiosi ma al tempo stesso affascinati, il guardarle genera interesse e spesso piacere. Si intuisce lo stupore spesso accompagnato dall’allegria del conoscere e ciò si evidenzia ancor più vivacemente nel rapporto con le specie animali e con gli esseri umani, diversamente sia coetanei che adulti. Al tempo stesso interroghiamoci su cosa e perché suscita in noi lo sguardo o il sorriso di una bimba o di un bimbo, e come loro interpretano il nostro sguardo. Più in generale: come concepiamo il guardare e l’essere guardati da altre persone, conosciute o sconosciute? Che cosa stiamo cercando, dicendo, recependo?

Da piccoli siamo fortemente tentati di toccare qualunque cosa, anche a rischio di scottarci, per conoscerla e perché ci piace conoscere anche al tatto. A maggior ragione cerchiamo il contatto fisico con nostra mamma, con fratelli e sorelle, con altre bimbe e bimbi e con gli adulti che ci risultano familiari. Crescendo, l’utilizzo del senso tattile diventa più complesso ma non perciò pensato a sufficienza. Una stretta di mano, un abbraccio, una carezza, una pacca sulla spalla troppo spesso sono concepiti come gesti automatici eppure talvolta ci lasciano una sensazione significativa e forse celano significati più profondi che vale la pena di indagare.

La curiosità per i rumori e per le voci umane da parte dei piccoli è un aspetto evidente ma per molti versi misterioso: di certo ascoltando vanno conoscendo ed apprendendo e al tempo stesso imparano a farsi sentire – eccome! – quando vogliono coccole, cibo o qualunque altra cosa. Nel frattempo prendono pian piano consapevolezza della loro capacità di comunicare e di recepire con lo sguardo, i gesti e la voce e ne godono. Nella crescita il nostro udito significa ad un tempo sentire ed ascoltare, ricevere ed elaborare e quindi imparare a comunicare. Scopriamo le musiche e la musicalità della natura prima: una cascata o un miagolio, lo stormire delle fronde o un uggiolio, un cinguettio o lo sciabordio del mare; e le diverse sonorità umane – vocali o strumentali – che ci emozionano, ci appassionano, ci commuovono, ci divertono, ci fanno danzare o pensare, ci accompagnano nell’amore e nella lotta, sollecitano gioia o tristezza, concentrazione o rilassamento ma può anche darsi ci lascino indifferenti o disgustati. Qualunque tipo di suono, persino un rumore – e ne udiamo di tremendi nelle città in cui viviamo –, acquista un qualche significato, ci invia un messaggio e ci invita a pensare, genera sensazioni positive o negative, oppure così così. Soprattutto siamo esortati dall’udire la voce umana cominciando da quella materna che ci accompagna e ci educa, ci rassicura e ci rimprovera, e cominciamo ad esercitare e sentire la nostra capacità vocale. Poi, nel cammino dell’esistenza, via via le voci più diverse ci accompagnano, causando piaceri o fastidi, intuizioni positive o impressioni negative o ancora noncuranza ma non comunque ignoranza. Tante voci si affollano: che sia quella di Ella Fitzgerald o della signora della porta accanto, dei migliori amici o dei politici più noiosi, di un amore lontano o del fruttivendolo vicino, del parente invadente o dell’estraneo gentile, del compagno di studio pedante o della compagna di lavoro collaborativa. Un suono e a maggior ragione una voce possono risultarci più o meno significativi, gradevoli o meno, possono destare simpatia o antipatia, motivarci o demotivarci. Certo dipende dal contenuto ma inseparabilmente riguarda il tono, il timbro, il volume, la pronuncia con cui qualcosa ci viene detta. Vale la pena di ragionarci su: ascoltando impariamo a parlare e possiamo imparare a farlo (per il) meglio.

Sin da bambini siamo sensibili e reattivi agli odori di qualunque tipo che ci forniscono un indizio piacevole o spiacevole: per esempio di un cibo che ci ingolosisce o ci disgusta. Siamo immediatamente capaci di riconoscere le “firme olfattive” delle persone care. Da adulti casomai ci saremo abituati alla puzza dell’inquinamento delle grandi città ma non smettiamo di essere stupefatti dal profumo dell’erba bagnata dalla rugiada. Forse subiamo il tormentone psicologista sul presunto significato degli odori nell’attrazione sessuale ma comunque impariamo a ricevere e a godere l’aroma che emanano le persone care.

Il gusto, come è stato notato il senso che più sollecita il concorso di tutti gli altri,3 lo sperimentiamo già da piccoli non senza capricci e stranezze e ci caratterizza: assume immediatamente un significato valutativo del piacere che ci fornisce un cibo o una bevanda e da ciò possiamo risalire alle persone che li hanno preparati ed offerti e forse capirne qualche aspetto biografico o carpirne qualche segreto culinario.

Appareevidenteinnanzituttocome inostrisensisianodestinatia ricercare ericonoscereilpiacere, individuando edevitandociòchenoncipiace e sfuggendo aldolore;dovremmo prendere in esame dunque che in essi risieda o possa risiedere una prima sentinella del bene che possa riconoscerlo, confermarlo e persino arricchirlo. Il condizionale è d’obbligo perché sappiamo che il piacere momentaneo non conduce necessariamente al bene. Tuttavia c’è un ulteriore indizio importante su cui riflettere: questielementaripiacerisensoriali li ricerchiamo assieme agli altri, a loro vogliamo trasmetterli e con loro condividerli; se riusciamo a trasmetterlo ad altre persone il nostro stesso piacere si realizza, si conferma e si accresce. Ancora non è una garanzia di bene e quindi di comportamento morale corretto, ma un’ottima notizia perché si tratta di un presupposto naturale che può aiutarci a raggiungere questo fine e ad evitare le trappole di cui è disseminato il cammino.

Così ci piace che il nostro sguardo piaccia alle persone cui è rivolto, ci piace condividere visioni positive assieme agli altri, aneliamo ad essere guardati dalle persone che conosciamo se e perché possiamo trasmettere positività e simpatia, così come speriamo che il loro sguardo ci comunichi altrettanto. In alcune circostanze possiamo avvertire o attendere qualcosa di analogo verso (e da) persone appena incontrate. Al tempo stesso uno sguardo attento può metterci all’erta sulle minacce che traspaiono dalle occhiate e dalle movenze di persone sconosciute.

Così desideriamo stringere una mano, dare una carezza, cingere le spalle, abbracciare le persone care: il piacere che ne ricaviamo è strettamente intrecciato a quello che cerchiamo di trasmettere; vivendolo sappiamo di questa tangibile reciprocità in atto, una qualche dipendenza positiva dal piacere altrui, ma forse non la teorizziamo a sufficienza. D’altra parte al contrario siamo in grado di riconoscere il formalismo di un saluto di mera cortesia.

Così ci soddisfa ascoltare buona musica ma se lo facciamo assieme è ancora meglio; vogliamo che le nostre parole suonino gradevoli a chi ci ascolta in generale, e in particolare a chi ci conosce, e ci aspettiamo altrettanto ascoltandole. Possiamo imparare dall’ascolto e ad un tempo nell’intuire come siamo ascoltati: trovando conferma delle nostre capacità di comunicazione e di recepimento. Viceversa l’udito attento recepisce la contrarietà, la falsità, l’errore di quanto ci viene detto ed anche di quanto andiamo dicendo.

Così vogliamo essere lavati e profumati per chi ci è vicino come ce lo aspettiamo da loro, e condividere gli aromi naturali e il gusto del cibo imparando ad affinarlo.

Un senso morale affiora nell’infanzia

Le caratteristiche che abbiamo cominciato ad esaminare si appalesano in forma elementare sin dalla nascita, poi si sviluppano e ci accompagnano in tutto il corso della vita, ma non è detto che ne prendiamo coscienza organicamente e che siamo quindi in grado di svolgerle ulteriormente a fin di bene.

In questo esercizio spontaneo di attrazione che viviamo nei passaggi relazionali e diversamente nei momenti collettivi, tendiamo ad essere più generosi che egoisti e al tempo stesso meno discriminanti che nell’essere attratti: infatti da piccoli siamo spesso ben disposti verso le persone estranee, e purtroppo nella società in cui viviamo ciò rappresenta un pericolo. Proviamo però ad analizzare il come ed il perché di questa predisposizione attiva che tutti in qualche misura abbiamo, pur essendo soggetti ad influenze e vincoli sociali e culturali veicolati in primo luogo dai contesti familiari.

Nelle esperienze infantili abbiamo dei sintomi che seppur vagamente tendono alla ricerca del bene e questa tensione appare legata immediatamente ed indissolubilmente a quello che suscitiamo negli altri. Di più: cominciamo a percepire il bene che scaturisce da un piacere offerto agli altri (non solo ai caregiver) affinché venga riconosciuto come tale. Sin da piccoli ci sentiamo in qualche modo attraenti, gradevoli, simpatici se siamo evidentemente considerati come tali dagli altri. È ipotizzabile che un tale rispecchiamento attivo e ricercato sia un fenomeno pre-cosciente, nel senso che prepara, alimenta, sollecita la nostra presa di coscienza sin da piccoli, e tale apprendistato tende confusamente ad avere un significato pre-morale. In altri termini: nell’infanzia avvertiamo ed offriamo dei segnali tramite la nostra sensorialità affinché la nostra simpatia venga riconosciuta e goduta come tale dalle persone (piccoli ed adulti) cui ci rivolgiamo. In questo modo è credibile che ci sia una prima configurazione, che cominci a prendere corpo letteralmente una sensazione durevole di piacere: scopriamo la possibilità del gioire della gioia altrui.

Le sorprese che ci riserva la nostra sensorialità infantile non finiscono qui, perché in effetti nel fornire un motivo di piacere agli altri siamo ancora più attenti e mobilitati che nel riceverlo, ovvero più generosi, anche perché così veniamo ripagati da una soddisfazione ancora maggiore.

Crescendo possiamo ricevere conferme che un nostro sguardo accogliente, un nostro gesto adeguato, un ascolto attento, un contatto fisico affettuoso, una postura disponibile, una parola gentile abbiano un effetto benefico contagioso seppur iniziale per un’altra persona; da ciò siamo sospinti ed incoraggiati a comportarci in modo analogo verso altre persone. A tale proposito pensiamo ai messaggi che siamo capaci di captare ed inviare tramite il sorriso, lasciando perdere le faccine sugli apparati elettronici.

Riflettere sulla sensorialità primaria ed i significati che può avere nello sviluppo della nostra personalità, non semplicemente superando ma avvalorando i migliori lasciti della nostra infanzia, ci porta a ragionare sentimentalmente sui nostri comportamenti anche nelle loro forme più elementari. In questo modo possiamo accorgerci di quanto sia presente e pulsante, fondante e fondamentale la tensione al bene che ci anima e ci sospinge nella vita. All’apparenza si tratta di questioni di dettaglio su cui normalmente non ci si sofferma – e vale la pena di chiedersi perché non lo si fa – eppure è proprio ritornando su questi indizi primari, elementari, che possiamo iniziare a capire meglio noi stessi e gli altri, possiamo cominciare ad intendere il significato individuale e reciproco del linguaggio emozionale e dell’universo sentimentale tendente al bene da cui muove il costituirsi della nostra morale.

Possiamo credibilmente ipotizzare che tendere al nostro bene è inseparabile dal tendere al bene altrui e di più: che quest’ultimo motiva, ci fa riconoscere, alimenta, rafforza, avvalora, costituisce l’idea stessa e la pratica del nostro proprio bene. Al tempo stesso possiamo credibilmente considerare, tramite una riflessione a proposito della sensorialità primaria e dei comportamenti elementari, l’universalità di questo messaggio concernente la propensione, la trasmissione e la condivisione iniziale del bene. In forme diverse e svariate, talvolta persino in contrasto con quelle praticate nel contesto culturale dove viviamo, ritroveremo in ogni zona e in diversi tipi di comunità del mondo queste medesime funzioni elementari e fondanti della ricerca del piacere vicendevole e della simpatia trasmessa e suscitata, quali prime e decisive movenze degli esseri umani nella propria tensione al bene con i caratteri espansivi, reciproci, imitativi tipici del suo costituirsi e svolgersi.

È notevole quanto tali segnali sensoriali, pur presenti e riscontrabili nella quotidianità di ciascuna/o, vengano trascurati, dati per scontati, non pensati o addirittura contraddetti dal senso comune e da fasulle interpretazioni pseudo-scientifiche. È un po’ come pensare di poter ignorare o di conoscere già l’alfabeto sensoriale e sentimentale della nostra tensione al bene, trascurando quindi la prima facie del nostro costituirci come esseri umani. Invece è proprio partendo, imparando e studiando l’alfabeto e tenendo presente la sua presenza costante, variegata, unica nelle sue peculiarità e in ogni espressione personale, reciproca, collettiva eppure evidente, caratterizzante, ineliminabile, onnipresente, fondante, universale (con variazioni), che possiamo comprendere e svolgere al meglio la grammatica facoltativa e la sintassi intenzionale di una buona morale atta al nostro miglior sviluppo psico-fisico come donne ed uomini liberi.

Nel mondo decadente dell’oppressione dilaga una sorta di presunzione di conoscere l’elementare – che invece per noi in questo caso è sinonimo di essenziale – che si ripercuote non solo nella fragilità e falsità delle riflessioni teoriche e teoretiche circolanti intorno allo statuto morale ed etico, ma innanzitutto nella rimozione o nell’incomprensione dilaganti dei significati delle nostre movenze quotidiane elementari autentiche e dirette, non filtrate dalle macchine. Movenze che rappresentano frutti acerbi ma fecondi della radice morale ed etica: bisogna scegliere se comprenderli e coltivarli per farli maturare beneficamente nell’intreccio con le altre radici antropologiche godendone immediatamente la potenzialità, oppure ignorarli e lasciarli appassire nella stanca meccanica della routine quotidiana impoverendo e rendendo più difficile la ricerca del bene proprio, condiviso e comune.

Di una cosa potete essere certi: malgrado la caducità in atto della società statale, bimbe e bimbi continueranno a spalancarci gli occhioni, a cercarci con un sorriso, a tenderci le manine… a suggerirci di essere più e meglio umani.

Dario Renzi

(3. continua)

Note

1. Per il nostro punto di vista a proposito della sensorialità primaria si vedano: Giovanna Maresca, La sensorialità primaria. Conoscenza e potenzialità, Prospettiva Edizioni 2008; Dario Renzi, Esseri relazionali e sentimentali. Dalla conoscenza alle scelte, Prospettiva Edizioni 2017, in particolare cap. IV, par. 4, “Sensorialità facoltativa”, pp. 186-198. È particolarmente interessante e stimolante a riguardo il libro di Lawrence D. Rosenblum, Lo straordinario potere dei nostri sensi, Bollati Boringhieri 2010.

2. L’approccio alla dimensione infantile dal nostro punto di vista è ben inquadrato dal libro di Chiara Raineri, L’infanzia della nostra vita, Prospettiva Edizioni 2020.

3. Si veda a proposito di L.D. Rosenblum, op. cit., parte III, cap. 5, pp. 161-192.